Ho conosciuto Denise Bonapace a Milano durante l’ultimo evento di Fashion Revolution Day, il movimento a favore della moda etica e sostenibile nato in reazione alla tragedia del Rana Plaza, in Bangladesh, il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia. Denise presentava Label, l’installazione artistica di un lungo abito realizzato con le etichette di abiti dismessi, 1133 quante erano state le vittime tra i lavoratori nel crollo dell’edificio.
Denise Bonapace conosce molto bene la moda e i suoi meccanismi. È una designer laureata al Politecnico della Moda a Milano, insegna Knitwear Design al Fashion Institute of Technology presso il Politecnico e alla Naba. Contestualmente alla sua attività di docente, disegna delle collezioni di maglia belle quanto particolari.
Belle perché realizzate in Italia con filati e lane italiane, con colori e risultati estetici molto delicati, quasi eterei. Particolari perché risultato di una creatività che non trae ispirazione da una proposta di stile, da un trend o da una palette di colori come avviene di solito per i fashion designer ma da un ragionamento sull’abito, sul suo significato, sul suo rapporto con il corpo. Un approccio che restituisce alla moda la sua funzione più alta e distintiva, quella di raccontare la nostra contemporaneità: chi siamo e il mondo in cui viviamo attraverso gli abiti che scegliamo e indossiamo. Una moda che non avevo ancora raccontato in La mia Camera con Vista e che vi propongo attraverso la conversazione con Denise in una mattina d’autunno a Milano davanti a un caffè (peccato non avere scattato delle foto…).
Per spiegare il tuo approccio alla moda e all’abito partiamo dalle tue collezioni?
“Dialogues è stato il primo vero progetto con il quale ho iniziato un percorso a cadenze annuali. Volevo esplorare il rapporto tra il corpo e l’abito. Mi sono concentrata solo su sei pezzi, sottraendomi alla necessità commerciali di realizzare una collezioni con mille varianti. Dialoghi d’amore e Dialoghi di Guerra: due filati, due colori e due punti maglia, rasata e inglese. Dialoghi d’Amore aveva una banda lunga sul polso che potevi arrotolare formando un bracciale e che simbolicamente poteva legare due persone per camminare mano nella mano.
Dialoghi di Guerra era rappresentato da un capo doppio composto da due elementi: uno leggero e uno pesante, uno in maglia inglese e uno in maglia rasata, uno beige e uno grigio. Due elementi antitetici, in contrasto tra di loro che però, collegati al collo da una zip, potevano convivere.
Con la collezione Tre ho invece esplorato il tema della libertà d’interpretazione dell’abito attraverso l’abbigliamento modulare. A fronte di un’idea convenzionale della moda che impone diktat, volevo offrire la possibilità di utilizzare la mia collezione in maniera personale.
Ho ideato quindi tre pezzi dell’abbigliamento comune – una maglia, una gonna e un abito – scomponendoli in moduli da comporre a coppie per la realizzazione di un capo completo. Ogni modulo è realizzato con tre materiali: uno in maglieria con filato di cotone, uno di cotone tessuto, e uno di seta e ogni materiale a sua volta è disponibile secondo una cartella colori che permette di comporre abbinamenti sempre diversi”.
– La tua ultima collezione Senz’Età ha una ‘testimonial’ particolare come Benedetta Barzini.
“Lavorare su Senz’Età mi è piaciuta moltissimo perché mi ha consentito di fare un ragionamento sul corpo: il corpo in divenire che varia con la vita della persona, che invecchia. Vedi, la moda per lo più si rappresenta con lo stereotipo di corpi giovani, magri, alti. Ma tutti gli altri mondi – la letteratura, l’arte, la musica, i design – sono liberi da queste limitazioni, non esiste un’unica tipologia di riferimento su cui gli artisti sperimentano. L’abito ti dà la possibilità di rendere bello qualsiasi corpo e quindi ho chiesto a tre donne meravigliose come Benedetta Barzini, Nicoletta Morozzi ed Eleonora Fiorani che mi sono vicine per sensibilità e gusto, di rappresentare il mio concetto. Ho esplorato il corpo anziano, non comunemente ritenuto bello e affascinante e ho cercato di ragionare su questo limite”.
– Mi è molto piaciuta nella tua collezione la bolla sul polso manica sinistra: sembra un palloncino, una nuvola, un manicotto. Un elemento stilistico molto forte eppure leggero, quasi etereo…
“La bolla in maglia è un riferimento affettuoso al ricordo di mia nonna che infilava il fazzoletto nella manica, una cosa poco elegante ma molto diffusa. Ho creato questa soluzione che rigirata sulla manica può diventare un contenitore di cose leggere ma che se srotolata aiuta a mantenere le mani calde. Come sai, il corpo dell’anziano tende a chiudersi e a ridursi con il tempo: per questo ho disegnato per la maglia una forma per cui le spalle sono spioventi. Ma ho usato anche silhouette scampanate che seguissero l’evoluzione e la trasformazione del corpo. Una signora mi ha confessato che con l’eta le sue braccia si accorciavano, quindi ho creato sulle maniche delle bordature che permettono di regolare la lunghezza assumendo la forma di bracciali e diventando quindi elementi estetici. Osservando come spesso le persone anziane tendano a camminare con le mani sulla schiena, ho previsto anche una tasca sul retro. Ho cercato le soluzioni che rendessero un abito bello e funzionale”.
– Guardando i capi io però li trovo davvero senza età.
“È vero. Si avverte sempre di più l’esigenza di possedere abiti che abbiano un senso e un valore, che ci rappresentino, che vestano la nostra persona senza essere sostituiti o buttati di continuo. Un’esigenza sentita anche dai giovani. Una sensibilità diffusa con la quale credo che anche il fashion system debba confrontarsi”.
– La moda però dovrebbe sempre cogliere lo spirito del tempo, no?
“Negli ultimi anni secondo me c’è stato un distacco da parte dei fashion designer con il mondo reale. Ho ragionato molto su questi aspetti anche nel corso della mia tesi al Politecnico con Eleonora Fiorani che è un’antropologa. La storia moderna della moda, negli anni ’50 e ’60, è stata fatta dalle sartorie che realizzavano abiti bellissimi, non prodotti glam. Negli anni ’80-90 la figura del sarto è stata rimpiazzata dallo stilista icona. Un fenomeno che ha espresso lo spirito delle ultime decadi del 1900 e che aveva un senso in un mondo inebriato da un’euforia economica dove si sostituiva un guardaroba ogni sei mesi. Oggi viviamo una realtà totalmente cambiata, le certezze del 900 sono cadute e le regole con cui la moda si deve raccontare devono essere per forza diverse. Alla gente ora non interessa più sostituire un abito ogni sei mesi ma possedere qualcosa che vada bene nel tempo e in tante occasioni. E poi non c’è più una sola tipologia di bellezza ma – permettimi di citare Umberto Eco – un politeismo della bellezza: tante sfumature della bellezza. Nell’arte questa è un’osservazione assolutamente ovvia. Perché non nella moda? Perché non raccontare le bellezze dei corpi? La moda ancora ragiona in un modo ancora troppo legato ai meccanismi di vendita”.
– Domanda provocatoria: la tua moda è molto meditata e molto rigorosa. Non contempla la frivolezza, la gratificazione momentanea di un desiderio che è invece così insito nell’acquisto di un vestito.
“È un’obiezione corretta Paola: la frivolezza, il divertimento di vestirsi e di giocare sono fondamentali nell’abbigliamento femminile e anche in quello maschile. nelle mie collezioni sviluppo il concetto di frivolezza nella libertà che concedo di scegliere e interpretare il proprio abito. È vero: cerco il rigoire per serietà, per svolgere il mio lavoro nella maniera più onesta. Se cerco la frivolezza temo di andare a chiudermi nello stile, di vivere strade che non sono quelle che vorrei per il mio marchio”.
– Chi è la destinataria del tuo marchio?
“Non mi fisso su un target di età o categorie. Donne di età varia che amano usare la testa per vestirsi. Il divertimento sta nella libertà di interpretazione della versatilità dei capi”.
– Dove si acquistano le tue collezioni?
“Online sul mio sito e in alcuni negozi. Dialogs per esempio era da Banner, a Milano”.
– Come avviene la promozione di marchi come il tuo?
“Beh, la promozione è difficilissima. Diciamo che sono sempre più spesso presente in mostre d’arte e in circuiti legati all’arte e al design. Due miei progetti per esempio sono alla Triennale di Milano per l’esposizione Women Italian Design”.
– Ti spiace?
“No, anzi: è il mio mondo. Certo, mi piacerebbe raggiungere anche più persone e altri circuiti”.
– Come è nata l’idea di Label, la tua installazione artistica di etichette?
“Dal lavoro di ricerca per la realizzazione di un’installazione che stavamo realizzando per Pitti Uomo a Firenze qualche anno fa. Si trattava di una parete alla Leopolda, costituita da abiti usati sottoposti a un trattamento speciale antismog che ripuliva l’aria. Mentre eravamo a Prato per reperire gli abiti, ho scoperto l’esistenza di grandi cubi dove erano raccolte etichette di tutti i brand, da quelli di lusso a quelli del fast fashion. Nel processo di recupero degli abiti infatti le etichette sono gli unici elementi che non si riesce a riciclare e quindi rappresentano il rifiuto per antonomasia perché non possono avere un processo di rigenerazione.
Una condizione paradossale, considerato che l’etichetta comunica la griffe, la moda, il lusso e il sogno. Abbiamo messo in scena Label per raccontare una storia sconosciuta e per portare a una riflessione. L’abito era stato installato lo scorso a settembre durante la Fashion Week al Palazzo Reale con il patrocinio del Comune di Milano e della Camera della Moda. La base era un tessuto in poliestere trasparente. In occasione dell’evento per Fashion Revolution ho realizzato una sovragonna per raggiungere il numero delle 1133 etichette come le vittime di Rana Plaza. Chi voleva poteva portare la propria etichetta e contribuire al valore dell’installazione. Ora dopo Fashion Revolution ce ne sono 500 in più e l’installazione continua a crescere. Sono diventata la raccoglitrice ufficiale di etichette. Se ti avanzano, sai a chi darle!”.
– Cos’è per te il bello?
“Mamma mia! Un concetto indefinibile. Mi vengono dei termini: alchimia tra intelligenza, proporzione che rompe, luminosità”.
– Eppure i tuoi capi sono così belli! Come inserisci l’elemento della bellezza nei tuoi progetti?
“Parto dal filato e scelgo materiali morbidissimi e piacevoli al tatto come il cashmere e il mohair ma anche filati anche più duri che restituiscono sensazioni tattili perdute e con i quali creo i volumi. Poi c’è colore, un elemento che uso con parsimonia perché ha un codice linguistico fortissimo e rischia di togliere attenzione al messaggio base che piace comunicare, la storia che ho in collezione. Nella collezione Senz’età ho usato il bianco e il nero, due non colori per antonomasia che lasciano libertà d’interpretazione. Se avessi previsto una scelta cromatica più ampia, il colore avrebbe vinto. Il colore vince su tutto: ti apre a una frivolezza, a sentimenti emotivi”.
Sei la prima fashion designer che incontro a non indossare le sue creazioni. Perché?
“Non riesco ad indossare le mie cose. Evito l’autoreferenza. Non voglio diventare un poster di me stessa. Mi sentirei vanitosa, troppo piena di me stessa, arrogante. E questo non voglio esserlo, mai”.
1 Comment
Paola
27 Ottobre 2016 at 16:44Bellissime maglie, molto particolari!